ASPETTANDO METAROCK 2015

In barba a chi è convinto che Pisa sia una città che non ha nulla da offrire agli studenti che la animano, o vorrebbero farlo, arriva a settembre uno degli appuntamenti più attesi dagli amanti della musica: una nuova edizione di Aspettando Metarock. 

Poche ed essenziali informazioni di cui avete bisogno per capire settembre e dare un senso alla sessione d’esami.11227981_738355259608647_1740773815201904951_o Continua a leggere

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Ascolti on the road, un diario di bordo

Una settimana ha sette giorni, ciascuno dei quali solitamente trascorre nella totale anonimia musicale, almeno per la sottoscritta. La routine ci soffoca: non solo impone un ritmo ripetitivo e serrato di gesti e impegni sempre uguali, ma spesso genera quel tedium vitae che ci spinge a riprodurre sempre le stesse vecchie tracce, ammuffite ormai nel nostro iPod. Stanca di questa noia di vivere, ho deciso, in una giornata di insolito entusiasmo in cui probabilmente il sole splendeva più forte del solito, di iniziare un viaggio musicale di sola andata: ascoltare ogni giorno un gruppo che non ho mai ascoltato prima, questa la mia missione! E tenere un piccolo diario di bordo della prima settimana di ascolti on the road.

Day 1, 23/07/15, Bloc Party
Decido di ascoltare i Bloc Party perchè li aveva pubblicati una pagina che seguo su Facebook. Gruppo britannico immerso in un indie rock che strizza l’occhio all’elettronica, sono noti dal 2003, anno del loro primo acclamato successo Silent Alarm. Già dal ’99 avevano iniziato la loro attività con due singoli, grazie ai quali vengono definiti dalla rivista Drowned in Sound come “gli Strokes sotto anfetamina che incontrano i Cure” (fonte Wikipedia). Diciamo che il mio ascolto si è limitato perlopiù a Silent Alarm, e a qualche pezzo da Intimacy del 2008: interessanti i testi e ritmi piuttosto ipnotici; preferisco in linea di massima i primi lavori, più vicini ai miei gusti, ma li considero una scoperta simpatica: li appunto e vado avanti.

24/07/15, Titus Andronicus
I Titus sono stati l’ascolto più atteso della settimana, tant’è vero che non sono riuscita a pazientare più di tanto prima di ascoltarli: li conoscevo attraverso i Fast Animals And Slow Kids, nonchè miei beniamini, che li apprezzano moltissimo – non a caso, ascoltando una buona porzione della loro discografia ho scoperto di conoscere metà delle canzoni, già ascoltate inconsapevolmente nei tour report di quei criminali dei FASK. Provenienti dal New Jersey, nel sound non tradiscono la loro terra: si percepisce la presenza di Bruce Springsteen in ogni singolo pezzo. Importanti sono anche i The Clash e i The Pogues, chiari ispiratori del gruppo per il genere, una specie di alternative/punk rock con fortissime componenti folk, ma anche per la voce del cantante, che spesso strappa il fiato con urlati a dir poco emozionanti. The Airing of Grevances (2009) li presenta al pubblico con una sincerità viscerale, ma il concept album The Monitor (2010) ispirato alla guerra di secessione americana contiene perle difficilmente trascurabili.

25/07/15, Jon Spencer Blues Explosion
Questo gruppo mi è stato fatto ascoltare da un amico da cui ero andata a passare il weekend. Trio formatosi nel 1991 a New York, si muove con discreta agilità tra le sonorità del punk blues, che si sposano perfettamente con la passeggiata in macchina sotto la pioggia che è toccata a me e il mio amico, alla ricerca di qualcosa da fare in un pomeriggio nella campagna perugina. Direi che non mi hanno colpito troppo: la potenza non manca, soprattuto in alcuni pezzi come Blues X Man; altri mi hanno lasciato abbastanza indifferente. Nessuna ultrarivelazione, ma uno stile molto speciale.

26/07/15, Cage the Elephant
Il nostro ascolto avviene sempre in macchina, stavolta sulla via di ritorno verso Terni dopo un weekend devastante. Il ritmo di questo gruppo è molto gradevole, anche perchè si passa tranquillamente da un semi acustico mai banale come quello di Cigarette Daydreams, a esperimenti molto più arditi e interessanti come Teeth e Hypocrite in cui i suoni distorti la fanno da padroni e riescono a stregare con facilità. Questo per quanto riguarda l’ultimo (buon) lavoro della band, Melophobia, del 2013. Gli album precedenti, sebbene mostrino una minore complessità al livello sonoro, almeno a primo impatto, rappresentano un percorso coerente di un gruppo che sapeva già dove voleva arrivare, salvo lievi sbandamenti. Un bell’indie rock originale, con un’identità definita e cesellata: una bella scoperta.

27/07/15, T.Rex
Grave mancanza, lo ammetto, non conoscere questa pietra miliare del Glam Rock. Si tratta senza dubbio del gruppo più autorevole che ho ascoltato questa settimana: con la bellezza di 15 album all’attivo, vengono fondati nel 1967 a Londra da Marc Bolan, e sono destinati ad un enorme successo, secondi in Gran Bretagna soltanto a The Who e Rolling Stones. Sono considerati inoltre, insieme ad altre band della metà degli anni sessanta, precursori e ispiratori del punk rock. Non è difficile crederlo, basta ascoltare pezzi come 20th Century Boy, destinati a diventare inni generazionali ma anche grandissime hit. I T.Rex sanno portare in campo tanta energia, ma sono apprezzabili anche in una veste diversa, con chitarre folk in pezzi come I Love to Boogie – ovvero, come rispolverare i sogni anni ’50.

28/07/15, Bologna Violenta
Torno in Italia per oggi, dove mi aspetta qualcosa di sorprendente: Bologna Violenta, one man band risalente al 2005, progetto del polistrumentista trevigiano  Nicola Manzan. Che dire, da uno diplomato al conservatorio in violino mi aspettavo tutto tranne questo: un grindcore stupefacente, totalmente estraneo alle mie corde che però riesce in qualche modo ad attrarmi. E’ partito tutto dall’album Bologna Violenta del 2005, contentente 27 brani costituiti quasi esclusivamente di riff di chitarra senza melodie, ispirati ai polizieschi italiani anni ’70. Ma non temete, le melodie arriveranno: Utopie e Piccole Soddisfazioni (2012) aggiunge melodie ben più strutturate, e alla fine anche i più schizzinosi verso il genere noise music non storcono neanche più il naso. Sono presenti anche due tracce cantate, in cui ritroviamo la voce del caro vecchio Aimone Romizi dei Fast Animals e di J. Randall degli Agoraphobic Nosebleed. Per Bologna Violenta direi un 10 più!

29/07/16, My Bloody Valentine
Il mio viaggio si conclude con un altro gruppo davvero importante, che non posso definire se non come il baluardo dei primi anni ’90. Nati in Irlanda nel 1983, dopo un periodo di oscillazione e cambi nella band, nel 1988 donano al mondo il primo album, Isn’t Anything, accolto con notevole favore dalla critica e che contribuì ad indirizzare il genere nascente dello shoegaze. Il mio ascolto si è concentrato perlopiù su Loveless, secondo album: lisergia, suggestioni, distorsori a profusione, voci sognanti e dei testi ridotti all’osso ma significativi, direi niente male, anche se da approfondire!

COBAIN: MONTAGE OF HECK

Per un pugno di film

Kurt-Cobain-Montage-of-HeckUn’icona dal passato turbolento

Documentario adrenalinico, nel quale il montaggio prende vita e diviene protagonista assoluto, Cobain: Montage of Heck è un prodotto dalle indubbie capacità di informazione e intrattenimento, che eleva nuovamente la figura leggendaria di Kurt Cobain, ma si interessa limitatamente del mistero che ruota attorno alla morte del cantante dei Nirvana.

Brett Morgen ricostruisce (attraverso filmati casalinghi, di repertorio, inquietanti animazioni e stralci del diario di Kurt) la vicenda artistica e biografica del chitarrista dei Nirvana, facendo leva quasi esclusivamente su una costante sensazione di inquieta tristezza. L’apatia, il rifiuto da parte dei genitori, l’eroina, la difficoltà ad affrontare l’inaspettato successo, il matrimonio con Courtney Love e la depressione sono solo alcuni dei tasselli che compongono l’intricato puzzle di Cobain: Montage of Heck. E volendo tralasciare l’aspetto narrativo del film, che informa in modo più dettagliato entrando dalla porta d’ingresso, si può immediatamente notare quanto sia…

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(S)poesia e disturbi cronici con Guido Catalano

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Ho sempre pensato che la poesia fosse qualcosa di complesso e pesante, un affare serissimo. Poi sono andata a sentire un reading dell’ormai noto Guido Catalano, e ho dovuto ricredermi.
(O forse no.)

Avendo già visto alcuni video delle letture di questo strambo omino, che tutto può sembrare a primo acchito fuor che un poeta, mi ero fatta un’idea di quel che mi attendeva. Nonostante ciò la serata mi ha comunque lasciata con diversi quesiti.

Dall’inizio alla fine della sua performance, Catalano non la smette di ammaliare il pubblico, gioca con lui, lo fa ridere, si fa amare. Non appena inizia il reading mi accorgo che buona parte delle persone intorno a me conosce quasi a memoria i versi di poesie, dialogoni e quant’altro; nella loro espressione al momento di annunciare una nuova poesia riesco a leggere la speranza di sentir declamare la propria preferita, e gioia per la scelta di una a cui si è legati – o il disappunto, per una che invece non piace molto.

Le risate del pubblico fanno da sottofondo alla voce squillante del poeta barbuto per tutto il tempo, e l’atmosfera si scalda facendosi quasi familiare. Alla fine del reading tutti si accalcano intorno al banchino per acquistare uno dei libri dell’autore, o almeno per chiedere un autografo.

Ripensando alla serata mi viene da chiedermi: fino a non troppo tempo fa la poesia era l’attività dei letterati e dei dotti, qualcosa di talmente lontano dalla quotidianità da essere percepito come una manna dal cielo, che non si sa da dove arriva o perchè. Sembrava quasi impossibile, a pensarci, che qualcuno fatto di carne ed ossa avesse scritto quei componimenti. Ora, con Catalano abbiamo l’antitesi del poeta vate, in un certo senso la banalizzazione della poesia, che tutt’un tratto è diventata terribilmente pop. E’ cambiato il mondo, siamo cambiati noi? Perchè Catalano ci piace?

Innanzi tutto se volete mettervi a leggere uno dei suoi libri di poesie, vi conviene rinunciare fin da subito alla metrica, alla forma, all’eleganza. O meglio, non è che le sue poesie manchino di questi elementi, solo che non li contengono nel modo in cui ci si aspetterebbe di trovarli. La ricercatezza del verso viene totalmente abbandonata, preferendo parole quotidiane, semplici, spesso inventate o appositamente esagerate, linguaggio scurrile, ripetizioni. Ciò non toglie che, come sempre, per creare uno stile che sia originale sia necessario un lavoro di labor limae, seppur “distruttivo”.

Il poeta non si presenta affatto come un übermensch, capace di provare emozioni sublimi e perfette: perfetta felicità, perfetta malinconia, perfetto dolore e solitudine. Il poeta – o meglio questo poeta – è un uomo qualunque, anzi di più, è potremmo dire uno sfigato. Tra i vari temi cardine dei versi di Catalano c’è senza dubbio l’amore, ma attenti: non è come ve lo ricordavate dal libro di letteratura del liceo. Incastonati tra una poesia d’amore felice e l’altra, ci sono milioni di amori ridicoli, vergognosi, friendzone, disgrazie e chi più ne ha più ne metta. Insomma, chiunque abbia affrontato nella vita una quantità media di traversie non può non rileggersi in quelle strofe.

In fine, anche la sintassi, il linguaggio, insomma la forma, appartengono al linguaggio e ai modi di fare comuni. Non c’è tentativo di elevare la poesia al di sopra di qualcosa, anzi semmai c’è un desiderio di trascinarla verso il basso, di accartocciarla, smangiucchiarla e gettarla in un angolo della strada: quello sembra essere il suo luogo naturale.

Viene da chiedersi se si tratti a questo punto di poesia, ma queste dissertazioni terminologiche le lascio ai miei docenti all’Università. Per ora mi sento di dire che se c’è una cosa che Catalano sa fare è parlare non col proprio pubblico, ma con i propri pari, e se volete sentirvi vicini a qualcuno che condivide il vostro odio per il mare o per Fernando, i suoi reading sapranno scaldarvi il cuore. Badate bene, potreste pure commuovervi, che gli scherzi sono le cose più serie che ci sono.

Pseudo-intervista-tranqui con Lucio Corsi


Nella suggestiva cornice del Cinema Teatro Lux di Pisa si è svolto, in una calda, caldissima sera del 10 Luglio, il Pisa Folk Fest: sul palco si sono avvicendati artisti, molto diversi tra loro ma che, in qualche modo, rappresentano la crème de la crème italiana di quell’evanescente genere noto come “folk”. Ma non è questo il punto, oggi: il punto è che tra un gruppo e l’altro sono riuscita con grande gioia a fare una bella chiacchierata con il giovane e promettente Lucio Corsi.
Oltre ad averci regalato un live breve ma intensissimo, col quale è stato capace di catturare anche chi non lo conosceva – figuratevi me, che cercavo di beccare un suo concerto da mesi e mesi -, giù dal palco si è rivelato disponibile come immaginavo, anzi molto più alla mano di quanto potessi immaginare. Ne è scaturita una pseudo-intervista “tranqui” su di lui, la sua musica, i tacchini, le larve, le camicie strambe, Milano e molto altro. Continua a leggere

Non sparate sul chitarrista – Dark Bird is Home review

Oggi, con imperdonabile ritardo ahimè, ho potuto dedicare le mie orecchie e tutta la mia attenzione all’ascolto dell’ultimo lavoro dello svedese Kristian Matsson, in arte The Tallest Man on Earth. L’album è disponibile dall’8 maggio 2015, e devo dire non è stato accolto nel migliore dei modi.

Cosa si è detto di Dark Bird is Home? Fondamentalmente che si tratta di un album trascurabile e banale, che permette finalmente a chi non aspettava altro di archiviare il povero Matsson tra le vecchie glorie che sembravano stelle, invece erano lucciole. “Un bravo ragazzo” diranno di lui, “un bravo ragazzo, si, abbastanza simpatico finchè non ha fatto uscire quel disco…”. Vedo già di fronte a me i volti contriti e leggermente nauseati dei critici, i loro sguardi delusi, di rimprovero quasi.

Sicuramente quest’ultimo lavoro è qualcosa di completamente diverso dai precedenti: Matsson si era distinto per uno stile pulito e minimalista, ma sincero – senza quella sincerità nel fare musica sfido chiunque a far uscire ben tre album e tre EP quasi soltanto chitarra e voce e vendere. Nelle canzoni appena uscite c’è stato invece un cambiamento totale e questo è evidente fin dal primo ascolto: un’attenzione alla fase della produzione che prima non era assolutamente pensabile, cori, archi, pianoforte, insomma pezzi molto più ambiziosi e strutturati se non altro dal punto di vista puramente musicale, che denotano un desiderio di migliorarsi.

Dopo tutto The Tallest ci ha fatto aspettare ben tre anni dall’uscita di There’s No Leaving Now, che sembrava già piuttosto appesantito da uno stile riconoscibile che rischiava di diventare un semplice marchio di fabbrica. L’originalità dei pezzi e il loro impatto erano fortemente diminuiti e, inutile negarlo, bisognava fare qualcosa. In ogni caso, dopo una pausa di riflessione così lunga e un bel respiro, Matsson ha deciso di rimettersi sul campo per scommettere la propria carriera in un unica partita da brivido giocata contro sè stesso. A giudicare dalle recensioni dell’album, temo non abbia fatto neanche il goal della bandiera in questo scontro all’ultimo sangue, anche se io credo ci siano delle precisazioni da fare.

Il povero cantautore è stato tacciato di aver tradito la sua musica, sacrificandola a un filone molto più vicino all’indie pop: le solite trovate commerciali di chi non ha abbastanza talento da restar fedele ai propri principi. Non nascondo che anche io sono rimasta un po’ interdetta nell’ascolto; di certo mi ha lasciata stordita, ma magari avrò semplicemente bisogno di tempo per assimilare il cambiamento.

Probabilmente non lo suggerirei come miglior album del talentuoso Matsson, ma non per questo mi sento di crocefiggerlo: per cosa, infondo? Per aver tentato una svolta, un salto di qualità? Per aver detto no a quella pigrizia che può spingere un artista a diventare la parodia di sè stesso, senza mai cambiare? Fin dall’inizio della sua carriera a The Tallest Man on Earth è stata affibbiata l’etichetta di Bob Dylan del 2000, cosa senza dubbio onorevole, ma suppongo anche un po’ frustrante. Magari c’era bisogno di lavorare un po’ per trovare un’identità personale, per rimettersi in gioco e dire “Oh Kris, questo lo sai fare, sei una bomba; adesso proviamo a fare una cosa che non sai fare.”. Io ritengo che la svolta di Dark Bird is Home sia forse non felicissima, è vero, ma non fuori luogo, in quanto era evidentemente necessaria.

Forse si tratta di un album un po’ banale, privo di una sua originalità intrinseca, ma non è un album da buttare, in quanto l’artista è ancora ben riconoscibile: basti pensare a pezzi come Beginners o Little Nowhere Towns. Penso che Kristian Matsson sia rimasto vittima, nel tentativo di crescere, del nostro bisogno di ascoltatori di non lasciare mai che l’etichetta si stacchi dal prodotto, confondendoci. “Che tutto sia al suo posto, che tutto sia semplificabile, santo cielo! A morte il cambiamento.” Probabilmente l’artista è cambiato, perchè ne sentiva la necessità, ma con uno scarto talmente repentino che quasi ha infastidito il pubblico. E quale occasione migliore per puntare il dito? Per chiudere, in questa società insoddifatta c’è sempre qualcosa da ridire: se fosse uscito con un altro album chitarra e voce si sarebbe detto “Andiamo, un altro disco così? Non ti pare di esagerare?”.

Foto disponibile su google
Foto disponibile su google

Considerazioni frivole e domande ingenue sui FBYC

Da un paio di giorni è comparsa una notizia che ha mandato in visibilio molti, e lasciato perplessa me: i Fine Before You Came hanno deciso di trasformare la loro esperienza acustica dello scorso tour in un vinile a tiratura limitata in uscita il 20 luglio.

L’album dovrebbe contenere dodici delle loro più famose tracce, riarrangiate in chiave acustica ed eseguite durante le 11 date che hanno portato la band a spasso per l’Italia in gennaio. A settembre diventerà poi un CD per la casa discografica Secret Furry Hole, ma si tratterà sempre di pochissime copie.

Ora, quello che mi sono subito chiesta è: come si fa il salto dal fare musica alla maniera violenta, viscerale tipica dei Fine Before You Came, a pensare ad un acustico che sicuramente avrà tutto un altro effetto sull’ascoltatore? I loro live sono quasi eventi mistici, in cui si realizza una tale compenetrazione tra i membri del gruppo e il pubblico, una tale compassione che qualunque osservatore ignaro rimarrebbe basito davanti al compiersi di questo prodigio. Non mi è mai capitato di assistere a una loro performance, ma già solo ascoltando le loro canzoni potevo immaginare l’esplosione di grida e di rabbia e di gioia, in fondo. E infatti…

Insomma, non è così comune che una band affermata e di successo ma, diciamocelo, non esattamente quel pop da grande pubblico, arrivi al livello in cui non c’è più alcun bisogno nemmeno di cantarle le parole delle canzoni. La gente fa tutto da sola, e non come  a quei concerti in cui gran parte dei paganti urla soltanto il ritornello dei pezzi più noti e per il resto si guarda attorno sbaccalita. Le persone ti tolgono le parole di bocca, cantano al posto tuo l’intero testo e rischi che gli scoppi il cuore a un metro da te, per la foga che ci stanno mettendo. Si tratta di una vera festa, di condivisione, di un momento di vera musica.

E che succede se a questa carica esplosiva viene sedata, diciamo ammortizzata (anche psicologicamente per l’ascoltatore l’approccio è sicuramente assai diverso) da un acustico? mi sono domandata.
Nel caso dei FBYC non si può rispondere a questa domanda, semplicemente perchè è ingenua ed è stata formulata, anzi, è emersa, senza tener conto di chi si ha di fronte. La band milanese non è di certo di quelle che rinnegano sè stesse, ha un’identità troppo definita per farlo: era impossibile che si fossero svegliati una mattina tutti e cinque e avessero deciso di adattare Vixi o Magone in chiave “romantici strimpellatori da oratorio”.

Mi è bastato andare a cercare qualche video tratto dalle date del tour acustico per rendermi conto di quanto le mie perplessità fossero del tutto ingiustificate: una carica pazzesca sprigionata, delle sonorità ancora più profonde e travolgenti, fuse e amalgamate perfettamente con i testi che viaggiano sul filone emo-core come quelli di nessun’altra band italiana, trascinandosi dietro i cuori, le urla e i dolori di un circoscritto ma devoto pubblico. Per non parlare di quel violoncello principe del palco: un vero tocco di classe!

Quindi, il 20 luglio è una data da attendere con gioia perchè, se i FBYC potevano radicalizzarsi, beh, l’hanno fatto! E come l’hanno fatto? Mettendo in discussione tutto il loro lavoro fino al 2015.
Insomma, ci sono tanti modi di fare musica e sicuramente allontanarsi anche di molto dalla propria dimensione non vuol dire tradire il pubblico, nè rinnegare il percorso battuto fin ora: non potrei immaginare niente di più coerente del lavoro che hanno svolto.

Ah, e credo che chi è andato a sentirli quest’inverno sia ancora fuori dal locale, un po’ a tremare, un po’ a piangere, un po’ ad essere felice.

(Foto proveniente da internet su cui non ho ne rivendico alcuna autorità ^^' )
(Foto proveniente da internet su cui non ho ne rivendico alcuna autorità ^^’ )

Dichiarazioni d’intenti

Ciao, sono Chiara!
Ehilà, qui vi parla il capitano Chiara
.

No. No così non va, decisamente no.

Sarò concisa: ho vent’anni, sono nata a Terni, ma frequento l’Università in quel ridente ricettacolo di zanzare chiamato Pisa: studio filosofia.
Non so neanche perchè ho creato questo pezzettino di carta bianca, qulla quale le quattro idee che mi circolavano in testa già cominciano a perdersi, a fluttuare. Sembrano già puntini isolati, ma non importa: in qualche modo li unirò, credo.

La sostanza è che ultimamente ho avuto voglia di scribacchiare quà e là riflessioni, pensieri: di dire la mia musica, fumetti, popcorn, serie tv, di tutto un po’. Più che altro perchè posso farlo ..quindi perchè no?

Chissà, magari capita anche qualche recensione, o addirittura (no non può essere) qualche foto. Foto che sicuramente avrà la linea d’orizzonte sbilenca, per dire.

Questo è quanto per ora, spero di essere attiva e creativa al più presto.
Auf wiedersehen!